Un richiedente asilo non può essere sottoposto a un test psicologico ai fini dell’accertamento del suo orientamento sessuale

L’effettuazione di un simile test costituisce, infatti, un’ingerenza sproporzionata nella vita privata del richiedente .

Lo afferma la Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza relativa alla causa C-473/16 , pubblicata il 25 gennaio 2018.
Con la sentenza odierna, la Corte constata che la direttiva sulle condizioni per l’attribuzione dello status di rifugiato consente alle autorità nazionali di disporre una perizia nell’ambito dell’esame di una domanda di asilo al fine di meglio stabilire le reali esigenze di protezione internazionale del richiedente.

Tuttavia, le modalità di un eventuale ricorso a una perizia devono essere conformi ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, quali il diritto al rispetto della dignità umana e il diritto al rispetto della vita privata e familiare.

In tale contesto, non si può escludere che, in sede di valutazione delle dichiarazioni di un richiedente asilo relative al suo orientamento sessuale, alcune forme di perizia si rivelino utili per l’esame dei fatti e delle circostanze esposti nella domanda e si possa ricorrere ad esse senza compromettere i diritti fondamentali del richiedente.

Al riguardo, la Corte sottolinea, tuttavia, che, nell’ambito della valutazione delle dichiarazioni di un richiedente relative al proprio orientamento sessuale, le autorità e i giudici nazionali non possono fondare la propria decisione solo sulle conclusioni di una relazione peritale e non devono essere vincolati da tali conclusioni.

Nel caso in cui l’esecuzione di una perizia psicologica volta ad accertare l’effettivo orientamento sessuale di un richiedente asilo sia disposta dalle autorità nazionali responsabili della valutazione della domanda, la persona sottoposta a tale perizia si trova in una situazione in cui il suo futuro è fortemente dipendente dall’esito riservato da tale autorità alla sua domanda: un eventuale rifiuto di sottoporsi a tali test da parte del richiedente asilo può costituire un elemento importante su cui le autorità nazionali si baseranno allo scopo di stabilire se quest’ultimo abbia sufficientemente motivato la sua domanda.
Di conseguenza, anche se l’esecuzione di tali test è formalmente subordinata al consenso della persona interessata, tale consenso non è necessariamente libero, poiché è imposto dalla pressione delle circostanze in cui si trova un richiedente asilo.

Secondo la Corte in tali circostanze, il ricorso a una perizia psicologica per accertare l’orientamento sessuale del richiedente costituisce un’ingerenza nel diritto della persona in questione al rispetto della sua vita privata.

La Corte rileva che una perizia può essere ammessa solo se è fondata su metodi sufficientemente affidabili, punto sul quale non spetta alla Corte pronunciarsi, ma che è stato contestato dalla Commissione e da diversi governi.

Con riferimento alla questione se un’ingerenza nella vita privata possa essere giustificata dall’obiettivo consistente nella ricerca di elementi utili a valutare le reali esigenze di protezione internazionale del richiedente, la Corte rileva che una perizia può essere ammessa solo se è fondata su metodi sufficientemente affidabili, punto sul quale non spetta alla Corte pronunciarsi, ma che è stato contestato dalla Commissione e da diversi governi. Peraltro, la Corte constata che l’impatto di una tale perizia sulla vita privata è sproporzionato rispetto all’obiettivo menzionato.

Riguardo a tale punto, la Corte osserva, in particolare, che detta ingerenza è particolarmente grave, in quanto è volta a mettere in luce gli aspetti più intimi della vita del richiedente.
La Corte rileva altresì che la realizzazione di una perizia psicologica volta a determinare l’orientamento sessuale di un richiedente asilo non è indispensabile per valutare l’attendibilità della dichiarazioni del richiedente relative al suo orientamento sessuale. Al riguardo, la Corte sottolinea che, in forza della direttiva, in una situazione in cui l’orientamento sessuale del richiedente non è suffragato da prove documentali, le autorità nazionali, che devono disporre di personale competente, possono basarsi, tra l’altro, sulla coerenza e plausibilità delle dichiarazioni della persona interessata.

Peraltro, tale perizia ha, nel migliore dei casi, un’affidabilità limitata, cosicché la sua utilità al fine della valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni di un richiedente asilo può essere rimessa in discussione, soprattutto nel caso in cui, come nella fattispecie, le dichiarazioni del richiedente non presentano contraddizioni.

In tali circostanze, la Corte conclude che il ricorso a una perizia psicologica volta ad accertare l’effettivo orientamento sessuale di un richiedente asilo non è conforme alla direttiva, letta alla luce della Carta.


Il Comunicato stampa della Corte di giustizia dell’Unione europea

Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza del 25 gennaio 2018 nella causa C-473/16


 

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