Quando il diritto è vita. Note a margine dell’ordinanza del Tribunale di Roma del 21 febbraio 2019

Tipologia del contenuto:Notizie

di Carla Lucia Landri e Claudia Pretto
rispettivamente avvocato in Torino, socio Asgi; giurista, esperta in protezione internazionale

L’art. 25 del Codice visti dell’Unione europea può in taluni casi essere applicato direttamente ed invocato di fronte al giudice nazionale, in mancanza di rilascio di visto da parte della Rappresentanza diplomatica competente

L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica


Ordinanza del Tribunale di Roma, 21 febbraio 2019


Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci siano i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono domare o indebolire le forze che causano l’emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire
Z. Bauman, La società sotto assedio

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Premessa

Il dibattito sulla necessità di una normativa comune sui canali di ingresso legali e sicuri verso l’Europa risale ai primi anni 2000 e trova consacrazione nella previsione del visto per “motivi umanitari”, in deroga agli ordinari criteri di ingresso, contenuta nell’art. 25, Regolamento CE 810/09, cd. Codice dei visti[1].

Gli anni immediatamente successivi hanno testimoniato l’elevato margine di discrezionalità in capo agli Stati membri[2], la cui prassi si è dimostrata imprevedibile. Caso esemplare è quello italiano, che non offre alcuna disciplina di tale istituto, concretamente limitato all’esperienza dei cd. corridoi umanitari[3].

Su tale quadro è intervenuta la decisione con cui il 21 febbraio 2019 il Tribunale di Roma ha ordinato al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale il rilascio in favore di un cittadino nigeriano minorenne, dimorante in Libia, di un visto di ingresso in Italia per motivi umanitari ex art. 25, Regolamento CE 810/09.

1. La fuga dalla Nigeria e il soggiorno in Libia

Il giudizio dinanzi al Tribunale di Roma trae origine dalla richiesta di una cittadina nigeriana, residente in Italia e titolare di un permesso di soggiorno ex art. 18, d.lgs 286/98, di tutelare il figlio minore, da oltre due anni in Libia in condizioni di grave pericolo.

Il ragazzo era partito dalla Nigeria a 14 anni per sottrarsi alle intimidazioni delle gang locali che controllano parte del sistema scolastico nigeriano e per incontrare la madre, assente dal Paese da oltre dieci anni. Appreso dell’arrivo del figlio in Libia e della difficile condizione sanitaria, a causa delle conseguenze di una ferita subita a una gamba, la donna avvertiva i servizi sociali del comune di Torino, che – grazie al coinvolgimento di una serie di operatori giuridici – contattavano l’Unhcr (Alto Commissariato Onu per i rifugiati)-Ufficio in Libia, per localizzare e mettere in protezione il minore.

Quest’ultimo versava infatti in una condizione di grave pericolo, sia alla luce della situazione di totale insicurezza in Libia, sia in quanto minore, e dunque maggiormente esposto al rischio di sfruttamento[4], oltretutto nell’impossibilità di attivare il ricongiungimento familiare[5].

A causa delle restrizioni imposte dalle autorità libiche[6], all’Unhcr non è tuttavia permesso contattare cittadini nigeriani in Libia, non rientrando la Nigeria in uno dei nove Paesi di competenza dell’Alto Commissariato (vale a dire Eritrea, Etiopia, Iraq, Palestina, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Siria e Yemen)[7].

Il minore veniva quindi segnalato al personale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che opera in Libia[8], che era in grado di localizzare, identificare e prendere in carico il ragazzo, garantendogli l’accesso a un luogo protetto e alle cure sanitarie necessarie. Inoltre l’Oim procedeva all’identificazione del minore, il quale era privo di documenti di identità nonostante i numerosi solleciti rivoli dal personale dell’agenzia all’ambasciata nigeriana. L’identità del minore e il legame di parentela con la madre venivano pertanto accertati dal personale dell’OIM attraverso una corposa serie di video-chiamate tra i due, alla presenza di personale di supporto.

Insieme a rappresentanti dell’Unhcr e dell’Unicef, l’Oim valutava inoltre il superiore interesse del ragazzo attraverso una relazione ad hoc (Best Interest Determination) dalla quale emergeva, in particolare, l’impossibilità del rimpatrio assistito, in considerazione della situazione in Nigeria, e la necessità di urgenti cure sanitarie[9].

Pertanto l’Oim avanzava informalmente un’istanza di rilascio di un visto di ingresso in Italia all’ambasciata italiana di Tripoli, ma a tale richiesta non seguiva alcuna risposta. Il minore, che deambulava con difficoltà, versava quindi nell’impossibilità fisica e giuridica di richiedere e ottenere un documento di ingresso in Italia.

2. Il ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma

Preso atto dell’impasse, la madre del minore proponeva in qualità di rappresentante legale del figlio un ricorso d’urgenza ex art. 700 cpc al Tribunale di Roma, chiedendo il rilascio di un visto di ingresso in Italia per motivi di salute (ex art. 36, d.lgs 286/98, Testo unico sull’Immigrazione)[10] o per motivi umanitari (ai sensi dell’art. 25, Regolamento CE 810/09)[11].

La gravità delle condizioni di sicurezza e sanitarie in cui versava il minore ne sorreggevano il giudizio di vulnerabilità, criterio determinante nella giurisprudenza di legittimità ai fini dell’accertamento dell’esistenza dei «seri motivi di carattere umanitario». Secondo la suprema Corte, infatti, la vulnerabilità dello straniero non impone solo l’astensione dal suo allontanamento, ma consente di «derogare al principio dell’adempimento delle condizioni di ingresso di cui all’articolo 5, paragrafo 1, lettere a)c)d) ed e), del codice frontiere Schengen» attraverso il rilascio di un visto di ingresso «per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali» (Cass. n. 4455/18).

Nel ricorso veniva ricostruita la vicenda del minore, già vittima di un duplice sequestro da parte di gruppi armati dopo che le imbarcazioni dirette verso l’Europa su cui si trovava erano state intercettate dalla cd. Guardia costiera libica, e costantemente a rischio di nuovi rapimenti. Inoltre ampio spazio veniva dedicato agli esiti del Best Interest Determination elaborato congiuntamente dai rappresentanti di Unhcr, Iom e Unicef in Libia, secondo il quale il superiore interesse del minore consisteva nella riunione con la madre in Italia, evidenziando da ultimo l’impossibilità di ottenere adeguate cure mediche in Libia, così come in Nigeria[12].

Il Tribunale di Roma accoglieva la richiesta della donna[13] evidenziando:

– le gravi condizioni di salute in cui versava il minore e l’urgenza di ricevere il necessario trattamento sanitario;

– il diritto del ragazzo di riunirsi con la madre alla luce dell’art. 8 della Cedu, dell’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia, della normativa nazionale e comunitaria, nonché della giurisprudenza costituzionale e di legittimità[14];

– l’elevato livello di rischio per la vita in Libia, essendo «notorio che trattamenti violenti, inumani e degradanti sono frequentemente subiti dagli stranieri in transito dalla Libia, i quali imprigionati in campi di detenzione subiscono violenza, fisica e verbale, tortura, maltrattamenti, malnutrizione e scarsa igiene, tutti fattori che causano estrema vulnerabilità nei destinatari di siffatti comportamenti».

Per tali motivi il Tribunale ordinava al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale il rilascio di un visto di ingresso umanitario con validità territoriale limitata ai sensi dell’art. 25, Regolamento CE 810/2009. Successivamente, grazie al costante supporto dell’Oim, il ragazzo raggiungeva l’ambasciata italiana di Tripoli, dove gli veniva rilasciato un lasciapassare sul quale veniva apposto un visto di ingresso in Italia per «invito»[15].

Conclusioni

La pronuncia del Tribunale di Roma offre numerosi profili di estremo interesse.

In primo luogo il decreto costituisce un ulteriore accertamento giudiziale delle condizioni di vessazione e sfruttamento in cui sono costretti i migranti in Libia e delle atrocità perpetrate all’interno dei campi di prigionia. La decisione si inserisce infatti all’interno di una corposa giurisprudenza, che ha nella pronuncia della Corte di Assise di Milano per i fatti di Bani Walid (sentenza del 10 ottobre 2017, depositata il 1 dicembre 2017, RG. 33307/16 NR) l’espressione più approfondita, e che chiama in causa le responsabilità delle autorità italiane nella politica di rifornimento della cd. Guardia costiera libica, responsabile del sequestro, dello sfruttamento e della rivendita di migliaia di migranti.

Inoltre l’immediata applicabilità del Codice dei visti, e in particolare la possibilità di rilasciare un visto per motivi umanitari ai sensi dell’art. 25, Regolamento CE 810/09, in assenza di una disciplina nazionale, costituisce un importante precedente, soprattutto per i migranti con familiari residenti in Paesi dell’Unione europea. Mentre la guerra tra Al Serraj e Haftar non conosce soluzione di continuità e si moltiplicano le invocazioni di un piano di evacuazione delle persone trattenute nei campi di tortura, il Tribunale di Roma ricorda che un canale di ingresso in Italia legale e sicuro esiste, e costituisce – quantomeno per una parte dei migranti in Libia – una possibilità concreta.


[1] Art. 25 Regolamento CE 810/09:

«1. I visti con validità territoriale limitata sono rilasciati eccezionalmente nei seguenti casi:

a) quando, per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali, lo Stato membro interessato ritiene necessario:
i) derogare al principio dell’adempimento delle condizioni di ingresso di cui all’articolo 5, paragrafo 1, lettere a)c)d) ed e), del codice frontiere Schengen;
ii) rilasciare un visto nonostante l’opposizione al rilascio di un visto uniforme manifestata dallo Stato membro consultato a norma dell’articolo 22; oppure
iii) rilasciare un visto per motivi di urgenza benché non abbia avuto luogo la consultazione preliminare a norma dell’articolo 22;

ovvero

b) quando, per motivi ritenuti giustificati dal consolato, viene rilasciato un nuovo visto per un soggiorno durante un semestre nel corso del quale il richiedente ha già utilizzato un visto uniforme o un visto con validità territoriale limitata per un soggiorno di tre mesi».

[2] Con la nota sentenza del 7 marzo 2017 nel caso C-638/16, X e X contro Belgio, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha escluso l’esistenza in capo agli Stati membri di un obbligo di rilascio di un visto per motivi umanitari allo scopo di consentire la presentazione di una domanda di protezione internazionale nel medesimo Paese, e dunque di soggiornare in tale Stato più di 90 giorni, ritenendo che tale richiesta «non rientra nell’ambito di applicazione del codice menzionato, bensì, allo stato attuale del diritto dell’Unione europea, unicamente in quello del diritto nazionale».

[3] «I #corridoiumanitari sono un progetto pilota portato avanti dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), dalla Tavola valdese, dalla Comunità di SantEgidio, nellambito di un Protocollo d’intesa concordato con i Ministeri dellInterno e degli Affari Esteri. Permettono a persone fuggite dal loro paese e in condizione di vulnerabilità, di accedere al loro diritto di chiedere asilo usufruendo di vie legali e sicure. Il 27 ottobre 2017, con l’arrivo da Beirut (Libano) dell’ultimo gruppo di profughi − soprattutto siriani − all’aeroporto di Roma-Fiumicino, è stata raggiunta la soglia massima di 1000 beneficiari prevista dal Protocollo sottoscritto tra le parti il 15 dicembre 2015. Il 7 novembre 2017 il Protocollo è stato rinnovato per il biennio 2018/19 per altri 1000 beneficiari», NEV, Notizie evangeliche.

Il progetto ha «come principali obiettivi evitare i viaggi con i barconi nel Mediterraneo, che hanno giàprovocato un numero altissimo di morti, tra cui molti bambini; impedire lo sfruttamento dei trafficanti di uomini che fanno affari con chi fugge dalle guerre; concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” (ad esempio, oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo», Corridoi Umanitari per I profughi, Sant’Egidio.

[4] Si vedano le Linee Guida sulla Protezione Internazionale No. 7: L’applicazione dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati alle vittime di tratta e alle persone a rischio di tratta (2006).

[5] Come noto il permesso di soggiorno ex art. 18 d.lgs 286/98, prevede la protezione delle vittime di tratta, ma non consente l’accesso alla procedura di ricongiungimento familiare ai sensi dell’art. 29, d.lgs 286/98.

[6] Si veda nota 98 del Rapporto Desperate and Dangerous: Report on the human rights situation of migrants and refugees in Libya, United Nations Support Mission in Libya and United Nations High Office of the High Commissioner, 18 dicembre 2018.

[7] «In practice, the Libyan authorities only recognize that individuals of nine designated nationalities may have a claim for international protection. Accordingly, UNHCR can register as persons of concern only individuals from these nine countries, namely Ethiopia, Eritrea, Iraq, Palestine, Somalia, Sudan, South Sudan, Syria and Yemen. UNHCR continues to advocate for the registration of all persons seeking international protection, regardless of nationality; UNHCR information, August 2018», UNHCR position on returns to Libya (Update II), settembre 2018. Il supporto dell’Alto Commissariato consiste peraltro in una sorta di riconoscimento di fatto dello status di rifugiato attraverso una registrazione, che peraltro non comporta la cessazione dei sequestri nei centri di detenzione, dello sfruttamento e delle violenze (L’attualità del male. La Libia dei Lager è verità processuale, a cura di M. Veglio, Seb27, novembre 2018).

[8] L’Oim, agenzia intergovernativa collegata alle Nazioni Unite, è tra le poche associazioni ad operare in Libia e tra le aree di intervento nel contesto della crisi umanitaria vi è la Child protection, programma specificamente teso alla tutela dei minori non accompagnati che mira a «valutare le opportunità di ingressi per motivi umanitari, individuare alternative alla detenzione e rafforzare strumenti alternativi quali il sistema delle famiglie affidatarie», The Child Protection Portfolio in 2018 (…) explore the opportunities of humanitarian admissions, find new Alternatives to Detention and strengthen the already available alternatives for children such as the host family system, IOM Mission in Libya.

[9] Sull’attività congiunta delle agenzie Onu per la protezione dei minori in transito in Libia, si veda IOM, UNICEF, UNHCR Step Up Protection for Children on the Move in Libya. Per quanto concerne la valutazione del superiore interesse del minore migrante e al lavoro delle agenzie Onu si rimanda a: Unaccompanied and separated children inter agency working groups, Alliance for child protection in Humanitarian Action, 2017. Sulle modalità di individuazione del Best interest assessment in contesti di migrazione forzata si veda: UN High Commissioner for Refugees (UNHCR), UNHCR Guidelines on Determining the Best Interests of the Child, May 2008.

[10] A norma dell’art. 36, d.lgs 286/98: «Lo straniero che intende ricevere cure mediche in Italia e l’eventuale accompagnatore possono ottenere uno specifico visto di ingresso ed il relativo permesso di soggiorno. A tale fine gli interessati devono presentare una dichiarazione della struttura sanitaria italiana prescelta che indichi il tipo di cura, la data di inizio della stessa e la durata presunta del trattamento terapeutico, devono attestare l’avvenuto deposito di una somma a titolo cauzionale, tenendo conto del costo presumibile delle prestazioni sanitarie richieste, secondo modalità stabilite dal regolamento di attuazione, nonché documentare la disponibilità in Italia di vitto e alloggio per l’accompagnatore e per il periodo di convalescenza dell’interessato. La domanda di rilascio del visto o di rilascio o rinnovo del permesso può anche essere presentata da un familiare o da chiunque altro vi abbia interesse».

[11] Quest’ultima previsione, come visto priva di una disciplina attuativa nazionale, ha trovato applicazione nell’ambito del programma dei cd. corridoi umanitari, che vede coinvolte organizzazioni non governative a cui è delegata l’individuazione di persone in necessità di protezione internazionale. All’individuazione di tale condizione segue il rilascio di un visto di ingresso da parte del Ministero degli Affari Esteri e il successivo trasferimento dei beneficiari in Italia.

[12] EASO-Country of Origin Information Report: Nigeria-Key socio-economic indicators, Easo, novembre 2018, pp. 47-52.

[13] Il Ministero degli affari esteri e il Ministero della salute, controparti nel ricorso, non hanno preso parte al procedimento.

[14] Cass. sent n. 1714/2001, n. 8582/2008, n. 12680/2009.

[15] Come noto il decreto del Ministero degli affari esteri dell’11 maggio 2011 (Definizione delle tipologie dei visti d’ingresso e dei requisiti per il loro ottenimento) non prevede tra le varie tipologie di visto di ingresso quello per motivi umanitari.


Foto di Free-Photos da Pixabay


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