“Apparente” nulla di fatto a proposito di assegno sociale e permesso di soggiorno di lungo periodo?

Ma secondo la Corte Costituzionale il requisito dei 10 anni di residenza in Italia potrebbe aver abrogato quello del permesso di lungo periodo.

(a cura di Alberto Guariso)

La tanto attesa decisione della Consulta in tema di assegno sociale sembrerebbe aver deluso le aspettative, ma forse non è esattamente così.

Come noto con la lunga serie di sentenze che vanno dalla 306/08 alla230/2015, la Corte aveva già falcidiato qualsiasi effetto dell’art. 80, comma 19, L. 388/2000 sulle prestazioni volte alla tutela della inabilità, alle quali pertanto lo straniero ha oggi accesso indipendentemente dal titolo di soggiorno: di quella norma restrittiva residua un unico effetto cioè quello relativo all’assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, L. 335/95, ovvero alla prestazione per i residenti che hanno compiuto 65 anni e 7 mesi e che sono privi di reddito o titolari di un reddito inferiore alla misura dell’assegno (euro 5.824,91 nel 2016: in caso di titolarità di un reddito l’assegno viene ridotto dell’importo corrispondente al reddito percepito).

Su tale prestazione è poi intervenuto anche l’art. 20, comma 10 DL 112/2008 conv. in L. 133/2008 che, fermo il requisito della residenza in Italia nel periodo in cui l’assegno viene percepito, ha introdotto per tutti, indipendentemente dalla cittadinanza, il vincolo secondo il quale a decorrere dal 2009 l’assegno spetta solo a coloro che abbiano già maturato 10 anni di residenza continuativa in Italia.

Ora, a una prima lettura, la decisione di inammissibilità n. 180/16 della Corte Costituzionale potrebbe sembrare solo conseguenza di una cattiva redazione della ordinanza di rimessione: il giudice rimettente non avrebbe compiutamente esaminato se il richiedente era titolare di tutti gli altri requisiti (compreso quello dei 10 anni di residenza) eccetto quello della cui costituzionalità si discuteva, sicché la questione non poteva dirsi rilevante ai fini della definizione del giudizio a quo.

Ma non è cosi. Dalla stessa ordinanza della suprema Corte si apprende che il Giudice rimettente aveva specificato che il ricorrente era presente in Italia dal 1992 e che era titolare di tutti i requisiti per accedere al beneficio, eccetto quello del permesso di lungo periodo.

Perché dunque la questione rimane inammissibile?

L’unica risposta possibile è che la Corte ritenga del tutto plausibile che l’introduzione successiva del requisito dei 10 anni di residenza abbia implicitamente abrogato il requisito del permesso di lungo periodo.

La conclusione sembrerebbe avvalorata dal giudizio fortemente favorevole che, in conclusione dell’ordinanza, la Corte spende a favore del carattere non discriminatorio del requisito decennale (già affermato nella ordinanza 197/2013): questo infatti, ricorda la Corte, evita disparità tra stranieri in relazione al titolo di soggiorno ed evita disparità tra italiani e stranieri esprimendo soltanto quella esigenza “di un radicamento più intenso sul territorio” che, per questa specifica prestazione, la Corte sembra ormai orientata a tutelare.

D’altra parte è innegabile che, nell’ottica del legislatore, i due requisiti rispondano alla medesima logica (quella appunto del “radicamento”) con alcune rilevanti differenze: la prima è che l’uno richiede il “radicamento” soltanto agli stranieri, mentre l’altro la richiedeva indipendentemente dalla nazionalità; la seconda è che l’uno (il permesso di lungo periodo) si espone alla medesima censura di assoluta irragionevolezza di cui alle sentenze 306/08 e successive, essendo del tutto irrazionale che una provvidenza rivolta a coloro che hanno un reddito inferiore all’assegno sociale venga attribuita a coloro che hanno…un reddito pari all’assegno sociale (essendo questo, come noto, un requisito per accedere al permesso di lungo periodo); l’altro invece non si espone a questa censura posto che il requisito dei 10 anni di residenza non si spinga nel circolo vizioso del reddito minimo.

La soluzione che la Corte sembra ora prospettare (se pure ancora in modo non definitivo come è inevitabile in una decisione di inammissibilità) è dunque semplice: cade il requisito del permesso di lungo periodo, ma resta il requisito della residenza decennale; anzi, il primo cade, senza bisogno di una pronuncia di costituzionalità, proprio perché il legislatore ha introdotto il secondo, da intendersi implicitamente abrogativo del primo.

Resta il fatto che, in assenza di una pronuncia di incostituzionalità, l’INPS continuerà a mantenere il requisito del permesso di lungo periodo e la soluzione del problema (pur ridimensionato nella sua ampiezza, posto che la gran parte dei residenti ultradecennali saranno anche titolari del permesso di lungo periodo) resterà ancora una volta affidata al contenzioso individuale, con grave violazione dei principi di certezza del diritto e di imparzialità dell’azione amministrativa.

E resta soprattutto aperto il profilo, sin qui mai esaminato dalla Corte, del rapporto con il diritto UE. Da questo punto di vista sorprende che l’ordinanza di rimessione, pur formulata nel marzo 2015, non abbia fatto riferimento alla direttiva 2011/98 che è sul punto di insuperabile chiarezza. Come è noto, l’art. 12 della direttiva impone la parità di trattamento per tutti gli stranieri titolari di un permesso che consente di lavorare “nei settori di cui al regolamento CE 883/04”; tali settori comprendono (art. 70) le prestazioni non contributive di cui all’elenco contenuto nell’allegato 10; l’allegato 10 comprende l’assegno sociale. Dunque, quantomeno per gli stranieri titolari di un permesso che consente di lavorare (che sono la quasi totalità) il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo cade più che per implicita abrogazione da parte dell’art.20, comma 10 DL 112/08, per contrasto con normativa UE direttamente applicabile.

Quanto al requisito decennale, il diritto UE rileva invece in modo decisivo sotto il profilo della discriminazione indiretta con riferimento ai gruppi di stranieri che godono di una protezione paritaria particolare: i titolari di permesso unico lavoro, i titolari di protezione, i familiari di comunitari, i titolari di carta blu.

Se tale principio paritario deve trovare applicazione – e senz’altro deve, essendo preciso e incondizionato – pare abbastanza evidente che un requisito di lungoresidenza cosi ampio ponga lo straniero (che ha ovviamente meno possibilità di maturare il requisito stesso) in una posizione di svantaggio rispetto all’italiano. La Corte Costituzionale ha in effetti considerato tale profilo in un’unica occasione laddove ha dichiarato incostituzionale la legge regionale della Val d’Aosta che prevedeva un requisito di residenza di 8 anni nella Regione al fine dell’accesso agli alloggi di edilizia popolare, anche perché in contrasto con la direttiva 2003/109 proprio sotto il profilo della violazione indiretta della parità di trattamento della quale devono godere i lungosoggiornanti (Corte Costituzionale, 168/2014). Nella giurisprudenza di merito la questione è stata sommariamente considerata (in un caso di familiare di cittadino italiano) da una pronuncia del Tribunale di Brescia favorevole al richiedente straniero (ordinanza 13 ottobre 2015) e in senso negativo dalla pronuncia di appello nella stessa vicenda: in entrambi i casi tuttavia, senza una considerazione particolare del dato statistico (che pure dovrebbe essere quello principalmente considerato nella discriminazione indiretta) relativo alla possibilità o meno degli stranieri di maturare detto requisito.

L’assetto che si profila dopo questa ordinanza della Corte Costituzionale potrebbe dunque non rivelarsi definitivo.

L’ordinanza della Corte costituzionale

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