La Corte Costituzionale boccia la legge regionale Veneto sugli asili nido: primo colpo al “contratto di governo”

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Con sentenza 107/2018 la Corte Costituzionale, su ricorso del Governo (di allora) ha dichiarato l’incostituzionalità della L.R. Veneto del 21.2.17 n. 6 nella parte in cui attribuiva la precedenza per l’accesso agli asili nido regionali ai “figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno 15 anni o prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno 15 anni…”.

La sentenza fa coppia con la precedente 106/18 (depositata lo stesso giorno 25.5.18) relativa alla legge regionale ligure sull’accesso alla edilizia pubblica. I profili esaminati sono tuttavia diversi in quanto la legge veneta, diversamente da quella ligure, non introduceva requisiti di accesso differenziati per italiani e stranieri, ma si limitava a prevedere un requisito di “radicamento territoriale” dei genitori quale titolo di precedenza all’asilo nido: un requisito peraltro talmente sproporzionato (15 anni, appunto) da precludere l’accesso – stante la scarsità di posti disponibili – a tutti i residenti da tempo inferiore.

Vediamo quindi, in sintesi, i principi affermati in sentenza e quali conseguenze la pronuncia potrebbe avere su situazioni analoghe.

  • L’asilo-nido ha una duplice funzione: una educativa, a vantaggio dei bambini rispetto ai quali persegue la finalità di “garantire ai bambini e alle bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura , relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali” (L. 13.7.2015 n.107, art.1, comma 181); l’altra socio-assistenziale, a vantaggio dei genitori che non hanno i mezzi economici per pagare l’asilo nido privato e che vedono anche per questo impedito, specie per le donne, l’accesso al lavoro, menomando l’obiettivo di conciliazione tra lavoro e “funzione familiare” perseguito dall’art. 37 Cost.  Naturalmente, una volta che sia così ricostruita la ratio del servizio, ogni tentativo di limitarlo agli italiani – come quello contenuto nel “contratto di governo” – viene per ciò stesso a cadere, risultando in contrasto, in particolare, con la funzione educativa, il cui destinatario è il minore, il quale è protetto dal principio paritario di cui alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia 20.11.89.

 

  • Il requisito, anche se previsto come titolo di precedenza e non di accesso, si pone in “frontale contrasto con la vocazione sociale degli asilinido”. Il relativo servizio “risponde direttamente a finalità di uguaglianza sostanziale …in quanto consente ai genitori privi di mezzi economici di svolgere una attività lavorativa…” quindi “deve essere destinato primariamente alle famiglie in condizioni di disagio economico e sociale” e non alle famiglie più “radicate” nel territorio. In altre parole gli interventi di politica sociale devono essere rivolti al bisogno e non a premiare “l’immobilità” del residente: una tesi dunque che ha portata generale e può trovare applicazioni ben più ampia, anche perché rafforzata, nella sentenza, dal richiamo alla legge quadro 328/00.

 

  • Per gli stessi motivi è anche infondato il così diffuso argomento secondo il quale sarebbe giusto premiare chi ha contribuito alle finanze della Regione, per esservi residente da lungo tempo (accenno in tal senso è contenuto ad esempio nella stessa sentenza della Corte 222/13). Un argomento di questo genere “tende inammissibilmente ad assegnare al dovere tributario finalità commutative, mentre è una manifestazione del dovere di solidarietà sociale”; quindi “applicare un criterio di questo tipo alle prestazioni sociali è di per se contraddittorio perché porta a limitare l’accesso proprio di coloro che ne hanno più bisogno”. E’ dunque sbarrata la strada a chi voglia pensare un welfare riservato a coloro che, in un modo o nell’altro, si sono pagati indirettamente i servizi che ottengono.

 

  • Infine la norma viola sia il principio di libera circolazione all’interno dell’Unione (tutelato dall’art. 21, comma 1, TFUE) mediante l’applicazione di un requisito palesemente sproporzionato, sia la mobilità tra una regione e l’altra ex art. 120 Cost. (e trattasi di argomentazione assai poco esplorata nei precedenti): il divieto di “adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libertà di circolazione delle persone e delle cose” di cui alla norma costituzionale comporta infatti anche il divieto di provvedimenti che limitano “anche solo in via di fatto i diritti in esso menzionati” scoraggiando la mobilità tra una Regione e l’altra.

 

Dunque proprio nel momento in cui la politica vuole spingere l’acceleratore sul principio  “prima i nostri” la Corte  pone un rilevantissimo freno,  richiamando principi costituzionali di solidarietà e di politica sociale che la valorizzazione del “radicamento territoriale” sembrava aver rimosso. E merita rilevare che questa volta –  diversamente da quanto accaduto per la legge  ligure o per quella della Val d’Aosta (sentenza 168/14) – la dichiarazione di incostituzionalità arriva senza attribuire particolare rilievo al tema della discriminazione dello straniero (richiamato quasi di sfuggita allorché la sentenza tratta del principio di libera circolazione infracomunitaria): un modo per segnalare che gli eccessi del localismo sono, prima ancora che discriminatori, ingiusti e irrazionali.

La sentenza

A cura di Alberto Guariso, servizio antidiscriminazione ASGI

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